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Home2023-03-10T17:50:16+01:00

Ciao, mi chiamo Antonio Roma e sono un autore, attore e regista di Teatro Civile; blogger e podcaster.

Da mia madre ho imparato la tenacia delle parole Resilienza ed Empatia. Mio padre mi ha educato al Mediterraneo e alla Memoria. Di mio ci ho messo la scrittura, la voce e una scelta non sempre convenzionale: le maiuscole.

Sono convinto che Bellezza e Utopia coincidano e che valga davvero la pena inseguirle, che Sarajevo mi abbia stravolto la vita e che in questo momento storico abbiamo bisogno di un lessico inedito, che affondi le radici nel Legame tra le parole Testimonianza e Umanità, le sole capaci di portare Autenticità.

Abito le giornate condividendo con bambini e adolescenti la portata rivoluzionaria delle parole; ma prim’ancora, facendo del Teatro Civile e della scrittura.

Teatro civile

La compagnia teatrale AR (si legge AERRE) – Teatro Civile prende il nome dal suo fondatore, nonché capocomico per dirla in termini tanto cari alla storia del teatro. Per dirla invece come la diremmo oggi, Antonio è il regista della compagnia teatrale e ne cura la Direzione Artistica.
Il teatro che mette in scena ha le fondamenta nella Testimonianza, accolta con Empatia e Rispetto e nella Parola e nella voce che le danno un corpo, gli strumenti più Tenaci nelle mani di un autore e di un attore.
La mission è da sempre soltanto una: portare Consapevolezza nelle persone che scelgono di accogliere i monologhi della compagnia teatrale, convinti che ogni monologo debba essere sempre il frutto di un lavoro di analisi culturale, politica, storica, umana della società ed espressione di una pluralità di voci.

Siamo una compagnia di Restanti che dissentono e non abbaiano in dizione, che traducono dolore e paure in Arte, Bellezza, Catarsi.

Ma che significa?
Che facciamo le cose alla nostra maniera, che è giusta per noi e che non ha davvero alcuna importanza sia giusta per gli altri. Che poi, come direbbe qualcuno che di autorevolezza ne ha più di me, che ha vinto Pulitzer e Nobel:
“La giusta maniera di fare, lo stile, non è un concetto vano.
È semplicemente il modo di fare ciò che deve essere fatto.
Che poi il modo giusto, a cosa compiuta, risulti anche bello, è un fatto accidentale.”

Accidentato è invece il terreno sul quale la nostra Arte, che piaccia o meno la sola che conosciamo e vogliamo abitare, avanza, ostinata e tenace.

A chi ci si accosta in maniera superficiale può sembrare il contrario dell’agire, della disponibilità e predisposizione al disordine, all’incontro, alla scoperta.
Ma è in errore chiunque voglia accostare l’esperienza indagatoria della Restanza all’immobilità, alla scelta di non incontrare l’altro e di non fare i conti con le ombre che nutrono il nostro alter ego.
Esiste una maniera spaesante di Restare, ancora più scioccante della ricerca, insicura e spasmodica degli altrove.

Restanza è parola avvincente, densa di Bellezza. Evoca frantumazioni di tempi e di luoghi, lacerazioni e dispersioni individuali e collettive, partenze, fughe, ritorni, abbandoni, perdite, rinascite. È una commistione felice tra Nóstos, ritorno, e Àlgos, dolore.
Nostalgia e malinconia, speranza e rimpianto sono calce di una concreta, contemporanea erranza, che appartiene in modo tangibile anche a chi è rimasto.

Nella vita di gente se ne incontra molta e ho imparato una cosa: siamo tutti sempre il raccolto della semina. La semina degli altri per noi e la nostra semina insieme costruiscono la nostra identità, il raccolto. E il raccolto è un contenitore, accanto ai frutti, che mostreranno sulla propria pelle i segni del tempo e delle intemperie, ferite cicatrizzate che non tolgono succo né inquinano il gusto, ma che ci sono e di fronte alle quali non tutti reagiscono e reagiamo allo stesso modo. Accanto ai frutti quasi sicuramente ci saranno poi delle erbacce e qualche ramo.

In conclusione, la Restanza è una condizione. Può diventare un modo di essere, una vocazione, senza boria, senza compiacimento, senza angustia e chiusure, con un’attitudine all’inquietudine e all’interrogazione. Restanza significa vivere l’esperienza Autentica dell’essere voce fuori dal coro.

Siamo una compagnia di Restanti che dissentono e non abbiano in dizione, che traducono dolore e paure in Arte, Bellezza, Catarsi.

Antonio Roma

Markale

About

Logline

Sarajevo, 5 febbraio 1994, il mercato di Markale si agita dell’atroce concitato rumore di pianti ed urla. C’erano scarpe, è di scarpe che si spandano le carneficine. L’assedio di Sarajevo è durato 1.479 giorni, oltre 50.000 civili sono rimasti feriti, 11.541 abitanti sono stati uccisi, di cui 1.601 bambini. Markale è il racconto, figlio delle Testimonianze accolte con Empatia e Rispetto di chi, ferito nel midollo e nel ventre, è sopravvissuto alla strage del mercato e all’assedio più drammatico e lungo della storia contemporanea.

Noi senza te

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Tommaso e Laura sono fratello e sorella. Sono stati abbandonati dal padre e vivono solo con la madre che, dopo essere stata lasciata sola dal marito, decide di stringere a sé i suoi figli più che può, per paura di perdere anche loro.
Compie così scelte sul futuro dei figli al posto loro, in primis il percorso di studi, scegliendo la facoltà di economia per la secondogenita, che invece sogna di studiare lettere, perché solo nei libri trova autori in grado di capire i suoi sentimenti.
Mentre disapprova totalmente la scelta del primogenito Tommaso di lasciare l’università per tentare la carriera da artista, vorrebbe per lui un lavoro e un futuro più concreti.
Quando però entrambi i figli vedono il loro futuro a rischio per via dell’autorevolezza della madre lo scontro diventa inevitabile e finiscono con l’accusarsi l’un l’altra di essere cinici e non disposti ad ascoltare gli altri.
Dopo lo scontro che porta la madre in lacrime sul punto di dover arrendersi alle scelte dei figli, entrambi capiscono le ragioni della madre, ovvero la sua grande paura, essere abbandonata ancora, così, pur non rinunciando ai loro sogni, decidono di non allontanarsi dalla madre che, dal canto suo, capisce come aver stretto i figli a sé abbia finito per soffocare il loro rapporto ed ora è disposta a cedere sulle scelte che riguardano il loro futuro pur di non doverli vedere andar via da lei.

The Fucking Italian Boy

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Una fredda mattina del 1981 lo scrittore John Fante, ormai cieco e su una sedia a rotelle, sente di avere ancora qualcosa da scrivere ed inizia a dettare alla moglie il suo ultimo romanzo.
The Fucking Italian Boy è un monologo di Teatro Civile, figlio dell’Amore nei confronti dello scrittore italo americano, del quale ripercorre la biografia, allargando lo sguardo alle storie dell’emigrazione italiana nelle Americhe. Pagina dopo pagina descrive la California di quegli anni, in bilico tra le incertezze della Grande Depressione e l’euforia della nascente industria cinematografica.
Su questo sfondo storico-sociale si sviluppano i temi portanti del mondo letterario di Fante di cui scopriamo la vita: le origini italiane, un padre ingombrante, l’emarginazione dell’adolescenza, la difficoltà di un aspirante scrittore ad emergere, la fame, il sogno americano, il successo hollywoodiano, i libri, l’amore, l’alcool. E la scrittura intesa sempre come la sola capace di portare di riscatto e speranza.

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In uscita il 1° e 15 di ogni mese

Alice’s box

Questa sezione accoglie gli scatti della fotografa e creator Alice Ponti sulle nostre produzioni di Teatro Civile e sul Mediterraneo. Essendo coautrice della newsletter, di alcuni monologhi e dei podcast che usciranno nei prossimi mesi, Alice gioca un ruolo imprescindibile nel lavoro che, ormai da anni, faccio con Filippo Borgia per portare consapevolezza nella vita delle persone. Ecco perché abbiamo pensato di dedicarle una pagina in cui può raccontarsi con i suoi scatti.

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