Buongiorno, è lunedì 10 ottobre, il caffè è amaro, com’ adda’ essere, e state leggendo ‘Na tazzulella ‘e café: le note del mio iPhone.

Vi è mai capitato di scrivere un racconto con un incipit dato da altri? Credo sia la difficoltà più stimolante per un autore. Detto ciò, non vorrei dilungarmi su chi, come e quando, voglio condividere con voi incipit e testo…

Incipit

Un temporale di parole, di giudizi, di opinioni: è facile lasciarsi sopraffare dalla pioggia costante, che ci bagna e ci influenza l’umore. Ci dimentichiamo di indossare un impermeabile con cui ripararci; la verità è che a volte non è necessario. C’è Bellezza nel farsi accarezzare da quelle gocce d’acqua, saltellando tra una pozzanghera e l’altra, come farebbe un bambino a cui non importa di bagnarsi. Dopotutto, non è altro che pioggia, pioggia che lava la confusione. Ti scivola addosso, non darle troppo peso, concedile l’importanza che merita. Dopo la pioggia, torna sempre a splendere il sole.

Temporale

Ettore ha i capelli alle spalle, di un castano lento e dello spessore di uno spago grosso. Li porta lunghi da quando ha dieci anni. Dieci è anche il suo numero di maglia. Un dieci che il calcio di oggi ha dimenticato. Un dieci educato e silenzioso. Ma ancor più importante, un dieci con i piedi. Un dieci in campo. Molto lontano dai dieci fuori dal campo, col Mojito in mano e con il numero di maglia tatuato sulla pelle e sulle scarpe, preceduto dalle iniziali del nome e del cognome.

Ettore ha studiato Beni Culturali in una delle accademie più rinomate in Europa, Accademia di Belle Arti di Brera, e si è laureato con una tesi sugli anni Quaranta di Giorgio De Chirico; avendo la meglio di ogni corso con la massima resa e il minimo impegno. E non per negligenza, quanto per attitudine. La verità è che Ettore è una delle due persone più intelligenti che conosca, e un paio di giorni di studio gli bastavano a recuperare con facilità il tempo dedicato, nelle settimane prima, a dormire e alla musica. Come quasi ogni studente pendolare che conosca.
Per Ettore, Brera era un ambiente scomodo, che lo stancava e scontentava, e che gli aveva procurato un sentimento di non appartenenza alla gamma di gente che Brera portava in grembo. Chi non poteva proprio sopportare, e non gli si può dare torto, era un amalgama di coetanei altezzosi e dalla scarsa igiene personale che in nome di una confusa idea di sinistra e di una discutibile arte contemporanea preparano Vin Santo e cannucce nel cortile di Brera.

Ettore è il frontman di un gruppo indie che si chiama “Ironia della Sorte”. Dopo la laurea e un’estate sonnolenta e salata nel posto meno mondano del Meridione d’Italia, era tornato a Novara e alternava sonno solitario e sonno con Carolina alla musica, macinata nella sua stanza tanto quanto in aula di registrazione.
Nella sua stanza c’erano un divano letto, armoniche, chitarre, un ukulele rosso e un pianoforte di seconda mano, un armadio con la sua roba e uno con i giacconi di mio padre. Ettore stava intere giornate nella sua stanza e poi dormiva abusivamente nella mia, che di letti ne aveva due. Le estati a causa sua non chiudevamo, lui compreso, occhio per il caldo; animato dalla preoccupazione di ammalarsi mi obbligava a tenere chiuso il balcone.

Ettore somiglia a Gatsby, il protagonista di “Un giorno di pioggia a New York”, nella fisionomia e nell’indole e proprio un giorno di pioggia dello scorso anno ha chiesto a Carolina di andare a stare insieme.

Era una domenica pomeriggio, e su LifeGate andava un brano malinconico di Dario Brunori. Una coperta pesante come un cappotto, un caffè amaro e una cioccolata calda. Lui si inginocchia, le allunga una mano, lei imbarazzata comincia a ridere. Le dice “andiamo, è ora”; lei impacciata risponde che non lo vorrebbe ma che nelle sue giornate di figlia, di spettatrice del matrimonio dei suoi, di confusione ce n’è stata troppa. Ma di pioggia ce n’è, pioggia che lava questa confusione. Ettore si alza e la prende per mano, la trascina fuori; “ci bagneremo”; “non importa, saltaci dentro”; “saltarci dentro dove? Ho paura del temporale!”; “le pozzanghere. E non temere: il sole sorgerà ancora”.

Ce verimm riman, stàteve buòno!