Buongiorno, è venerdì 7 ottobre, il caffè è amaro, com’ adda’ essere, e state leggendo ‘Na tazzulella ‘e café: le note del mio iPhone.

Oggi condivido un breve racconto scritto in treno negli anni dell’università, non so se sia ancora attuale ma mi piaceva e quindi ve lo condivido.

Markale quand’ancora non era un monologo…

Cominciamo col dire, senza mezzi termini e troppi inutili giri di parole che comprendere l’indole di Ervin era un rompicapo insolubile a chiunque, moglie e figlie comprese.
Tutto ciò nonostante Ervin fosse noto ai più a Sarajevo. Compositore ormai quasi del tutto sordo e maestro d’orchestra in pensione con il capriccio degli scacchi – cruccio che spartiva quotidianamente, dall’infanzia, con l’amico Daniel – Ervin era un’incognita per chiunque lo conoscesse.
Sorrideva poco, pochissimo. Era convinto che i sorrisi non andassero sprecati e che solo una custodia accorta e sollecita ne avrebbe preservato l’autenticità.
Sì, perché “i sorrisi – era solito ripetere alle figlie, ormai madri, da quando avevano pochi mesi di vita – per essere sorrisi devono essere autentici, al contrario è meglio tenere il broncio”.

Adolescente decise di scrivere una poesia d’amore alla compagna di classe dell’ultimo banco. La ragazzina dimostrò scarsa sensibilità e smania di protagonismo – diciamo anche che era tanto carina quanto stronza – e con tenacia sgraziata stracciò il foglio di carta sghignazzando durante l’intervallo.
Da allora Ervin decise di tenersi a distanza da tutto ciò che comportasse un coinvolgimento emotivo. La decisione, esercitata con fermezza, diventò presto abitudine e in poco tempo maturò una misantropia radicale che, negli anni, si era cicatrizzata tenacemente. La paura del fallimento ero un morso alla gola e un crampo allo stomaco; motivo per cui Ervin non chiese mai alla donna che sarebbe diventata sua moglie di vedersi per un caffè o di cenare insieme; si limitò ad accettare l’invito imbarazzato di lei, dopo aver soppesato con raziocinio e lungimiranza i pro e i contro di una relazione e le conseguenze del rispondere sì. Naturalmente, anche quando ebbe deciso, si interrogò prima di pronunciarsi sulle parole migliori da accostare al sì. Le parole che vengono dopo il sì. Parole che aprono a una storia ma che non la danno per scontata. Mai abbandonare la cautela, anche e soprattutto, a pericolo scampato.
La verità nuda e cruda era che i due si piacevano molto.
Di lei lui amava le dita snelle, la torta di mele cotogne alla cannella, che gli preparava ogni settimana e quel modo unico di suonare il violino.
Di lui lei amava guardarlo comporre, lo spiccato orientamento alla solitudine – Ervin era capace di sentirsi solo anche quando gli altri gli stavano attorno – e il suo scartare a priori la protezione della notorietà.

Ervin era un settantenne che tutto sommato si diceva felice e fortunato della sua vita.
Del tempo trascorso con la moglie e le figlie. E adesso con le nipotine.
Delle eterne partite a scacchi con Daniel, ubriacone disoccupato dalla nascita. Non che ne avesse mai vinta una, precisiamo, ma c’era in quelle sconfitte tanta più Bellezza di quanta ce n’era adesso nelle vittorie più prestigiose.
Della musica composta e di essere ancora abbastanza lucido da poterla ascoltare e non solo sentire.
Era felice. Eppure inquieto. Con gli stuzzicadenti tra le palpebre era da qualche giorno che non riusciva a prendere sonno. Neppure il pomeriggio seduto sulla poltrona difronte al camino.
Era febbraio e a Sarajevo la temperatura era scesa sotto lo zero. La neve era gelata e le strade erano vere e proprie lastre di ghiaccio. Gli uomini si riempivano di bestemmie e rakija e le donne riempivano il buco allo stomaco degli uomini lasciato vuoto da bestemmie e rakija.
Dire a questo punto che Ervin non era come gli altri uomini sarebbe scontato e porterebbe fuori dalla storia.

La promessa

Era felice. Eppure inquieto. Turbato. La ragione del suo turbamento?
Non era la memoria della guerra in sé, sebbene non lo toccò solo di sbieco, e non era la paura della morte che tanto condizionava il vivere dei suoi coetanei. Non era neppure la morte improvvisa e prematura di Daniel o il divorzio inaspettato della figlia di mezzo.
La stonatura era incarnata dalle parole di Daniel prima di morire. “Devi tornarci Ervin. Sono passati 20 anni. Devi tornarci.”

Tornare a Markale. Tra i banchi di ferro e di legno. Tra la frutta e la verdura. Nel luogo di incontro per antonomasia, dove, durante l’assedio, tra le poche cose offerte a prezzi da mercato nero, pagate a peso d’oro o scambiate per sigarette, era stato ucciso il primo figlio di Ervin. Il maschio. Asmir.
Ervin era un uomo di parola e la promessa consegnata nelle mani fredde di Daniel, prima che chiudesse gli occhi per sempre, di tornare a Markale prima di morire non poteva non mantenerla. Ad oggi, però, non aveva ancora mantenuto la promessa e anzi, era uscito di casa solo per andare a recuperare le bambine, le nipotine, a scuola. Per il resto del tempo se ne stava chiuso nella stanza del pianoforte, seduto sul baule, con le lacrime agli occhi e tra le mani uno stralcio di giornale. Le parole erano di un giornalista italiano conosciuto durante la guerra e con cui non era più contatto da qualche anno.

A lunedì, buon weekend e… out of topic: leggete Il giovane Holden

Ce verimm lunnerì, stàteve buòno!