Buongiorno, è martedì 28 settembre e il caffè è amaro, com’ adda’ essere. Oggi per qualche minuto torniamo al mese di agosto.
Sono passate le otto di sera e la luce sul porto di Lampedusa si affievolisce. È metà agosto. Durante il giorno il sole ha battuto sulle stradine e sulle case dai tetti piatti, ma ora i ristoranti che offrono specialità a base di pesce sono pieni. A poca distanza dai tavoli passa un autobus scortato da due camionette e da un’auto dei carabinieri con i lampeggianti accesi. Sta portando una sessantina di migranti, tutti con le mascherine, al traghetto ancorato poco lontano. Tra poco salperanno verso un porto in Sicilia, per essere poi smistati in centri di accoglienza sparsi su tutta la penisola.
Questo balletto si ripete ogni giorno sulla piccola isola.
Di Lampedusa i migranti conoscono dunque solo il centro di accoglienza, spesso pienissimo, dove restano per pochi giorni o poche settimane. La struttura si trova in mezzo all’isola ed è stata costruita al riparo dagli sguardi. Ci arriva una sola strada, che finisce in una vallata. Le strade che portano alle spiagge sono altrove.
Queste sono le parole di Internazionale, scritte da un giornalista di Le Monde. Ora, perché ne parlo? Perché mi incuriosiva un aspetto di questo testo: come in realtà, noi non entriamo mai in contatto con gli altri, specie se entrarci in contatto può, in qualche modo, farci provare una sensazione strana, farci sentire a disagio.
Su questo disagio credo ognuno di noi abbia davvero molto su cui riflettere.
Ce verimm riman, stàteve buòno!